Intervista agli Avvocati Alfonso Bonafede e Fabio De Dominicis sulla nuova azione di classe pubblicata sulla rivista MAG

Maggio 23, 2023

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Il 25 giugno 2023 entrerà in vigore una nuova normativa italiana sulla cosiddetta azione rappresentativa (o, più comunemente, azione di classe o class action), e cioè sul rimedio giurisdizionale che permette a più soggetti appartenenti a una stessa categoria (la “classe”, appunto) di far valere un loro diritto o interesse comune. La disciplina in questione, contenuta nel decreto legislativo n. 28 del 10 marzo 2023, va a modificare il nostro codice del consumo ed è di derivazione europea: dopo la vicenda “dieselgate”, il legislatore dell’Unione, con la direttiva 2020/1828, si è deciso a obbligare tutti i Paesi membri a creare una strada per permettere alle vittime di pratiche commerciali sleali, siano esse persone fisiche o giuridiche, di ottenere collettivamente giustizia; sia per questioni interne ai confini del singolo Stato (azione rappresentativa nazionale), sia nei casi in cui le controparti risiedono in Paesi UE diversi (azione rappresentativa transfrontaliera).

Qualcuno, a questo punto, potrebbe avere un déjà vu. Perché in effetti una riforma della class action l’Italia l’aveva già varata: la legge 31/2019 (che recepiva la raccomandazione 2013/369/UE), approvata durante il governo Conte-1 e sostenuta dall’allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, è entrata in vigore il 19 maggio 2021.

Ne parlammo approfonditamente anche su MAG: di fatto, con la legge 31 la class action aumentava la sua portata, spostandosi dal codice del consumo a quello di procedura civile e aprendosi alle imprese e ai lavoratori; consentiva ai soggetti lesi di unirsi all’azione in due diverse finestre di opt-in; prevedeva come centrale la figura del rappresentante comune degli aderenti alla class action; e istituiva una piattaforma telematica unica per la pubblicità e l’eventuale adesione alle azioni in corso. Attirò anche parecchie critiche: in particolare, le associazioni dei consumatori lamentarono la mancata previsione di un regime a loro dedicato; mentre le aziende criticarono soprattutto il “late opt-in” (l’adesione all’azione dopo la sentenza), che rendeva difficoltoso predeterminare il valore della controversia.

Cosa comporterà questo rapido avvicendamento tra le due discipline, sempre che di vero avvicendamento si possa parlare? MAG ha voluto discuterne proprio con l’ex ministro Bonafede, ora tornato alla professione nello studio che porta il suo nome, e con il collega e of counsel dello studio Fabio De Dominicis, che coltiva la materia anche in ambito accademico.

TROPPE LEGGI

«L’Italia, con gli articoli 140bis e seguenti del codice del consumo, ha una normativa sulla class action dal 2010», spiega l’avvocato Bonafede. «Ma in concreto era stata utilizzata pochissimo, sia per i rigidi paletti posti dalla normativa, sia probabilmente per le resistenze culturali degli addetti ai lavori. I numeri dicono tutto: nei primi 10 anni di operatività, su 65 azioni di classe incardinate solo 20 avevano superato il filtro di ammissibilità e solo 7 sono arrivate a una sentenza di merito».

La legge 31 ha provato, come detto, a espandere il raggio dell’azione di classe, spostandola nel codice di rito, all’articolo 840bis e seguenti; ma, ancora prima della sua entrata in vigore, è stata “superata” dalla nuova direttiva europea. Il cui approccio “verticale” tuttavia, secondo Bonafede, non ha permesso di semplificare il quadro normativo già esistente, e rischia di suscitare dubbi interpretativi e problemi di coordinamento: «L’impulso europeo era senz’altro condivisibile» chiarisce l’ex ministro. «L’azione transfrontaliera, l’apertura al third party funding, la conferma dell’ampliamento dei possibili legittimati passivi sono aspetti interessanti del decreto legislativo di recepimento. Che però ha perso l’occasione di intervenire chirurgicamente sulla disciplina già presente nel codice di procedura civile, ritornando ad agire sul codice del consumo e creando dunque un doppio binario che metterà magistrati, avvocati e associazioni di fronte a continui problemi di coordinamento tra le due discipline». Che in realtà, a ben vedere, sono addirittura tre: come spiega De Dominicis, infatti, la class action originale (quella del 140bis del codice del consumo) continuerà ad applicarsi ancora a tutte le condotte illecite antecedenti al 19 maggio 2021. «Nel tentativo di limitare i problemi di coordinamento» prosegue De Dominicis «il legislatore ha poi previsto che, nelle 68 materie individuate dalla direttiva e concernenti i diversi interessi dei consumatori, gli enti legittimati potranno utilizzare esclusivamente il nuovo rito. Quindi, di fatto, espungendo le associazioni dei consumatori dai legittimati attivi ai sensi della legge 31». Questo sebbene il nuovo decreto contenga comunque un ampio rinvio alla disciplina del 2019, in ben 9 articoli.

Una complessità evitabile? Per una parte della dottrina, convinta che la direttiva imponesse un’azione di classe riservata ai consumatori, evidentemente no. Ma De Dominicis è in disaccordo: «Credo che la direttiva lasciasse spazio sufficiente per evitare la comparsa di un doppio binario che, con i suoi paletti oggettivi e soggettivi, allontanerà la decisione dal merito della controversia: gli avvocati dovranno invece discutere della qualificazione di consumatore, o capire se la materia trattata rientra tra le 68 menzionate, invece del presunto diritto violato in sé». Sembra in effetti come minimo un’occasione mancata per non complicare un quadro normativo già intasato; se non addirittura, come sostiene De Dominicis, una fonte di possibili disparità di rito (e quindi di trattamento) tra situazioni simili.

AFFINITÀ E DIVERGENZE

I due avvocati passano quindi in rassegna le altre caratteristiche della nuova disciplina. Alcune, come detto, prendono a piene mani da quella della legge 31. Come il meccanismo dell’opt-in per la formazione della classe dei creditori, a cui si fa esplicito rinvio: «Anche nella nuova azione rappresentativa sarà possibile aderire alle pretese in due finestre temporali, lunghe da un minimo di 60 a un massimo di 150 giorni; sia dopo il giudizio di ammissibilità che dopo la sentenza di merito» spiega Bonafede.

Altre hanno portata espansiva o innovativa rispetto al passato: come l’ampliamento del novero dei soggetti che possono essere convenuti. Nella class action ex legge 31 erano le “imprese e i gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità”; mentre nell’azione rappresentativa sono i “professionisti”, con cui, come spiega De Dominicis, «si intendono persone fisiche o giuridiche impegnate in attività commerciali, imprenditoriali, artigianali o professionali: si rende possibile così un’azione di classe anche per eventuali comportamenti abusivi nei confronti di un’impresa».

Dall’altro lato, quello dei ricorrenti, perde centralità la figura del singolo soggetto leso, e tornano in gioco le associazioni di categoria iscritte nell’apposito elenco presso il ministero delle Imprese e del Made in Italy: saranno le sole legittimate a muovere la nuova azione rappresentativa.

Infine, con la nuova azione si potranno richiedere cumulativamente sia la tutela risarcitoria che quella inibitoria; quest’ultima anche tramite misure di coercizione indiretta, come il pagamento da parte del “professionista” convenuto di somme fino a 5mila euro in caso di mancata cessazione della condotta lesiva.

CHI PAGA?

Il tema dei costi fu uno di quelli su cui la riforma varata dal ministro Bonafede raccolse più critiche dal mondo delle imprese. A chi lamentava che la possibilità di opt-in “tardivo” rendesse poco prevedibile il quantum del risarcimento richiesto, Bonafede risponde: «Sono critiche legittime. Ma la ratio della norma è quella di sollecitare il concentramento del maggior numero di soggetti legittimati in un’unica procedura e comunque in finestre temporali ben definite per l’adesione all’interno della stessa azione; tentando di evitare il moltiplicarsi di numerosi contenziosi distinti, sulla scia del precedente favorevole alla classe. L’obiettivo – continua Bonafede – è quello di trovare un punto di equilibrio tra l’effettività della tutela dei diritti e l’efficienza complessiva del sistema giudiziario, evitando al contempo che ci siano abusi a danno delle imprese chiamate in causa».

Proprio ai costi, il nuovo decreto presenta comunque una novità di assoluto rilievo: viene infatti considerata, per la prima volta nell’ordinamento italiano, la possibilità che le spese connesse all’azione di classe non siano sostenute direttamente dalla parte ricorrente ma da un finanziatore terzo (è lo schema del cd. litigation funding o third party funding). «La figura non viene disciplinata del dettaglio» spiega Bonafede, «ma il decreto prevede l’ostensione, nel ricorso introduttivo dell’azione, dei finanziamenti promessi o ricevuti da parte di terzi, al fine di prevedere l’inammissibilità della domanda qualora il finanziatore fosse concorrente o dipendente del convenuto».

Si tratta di un passo importante, e da tempo si parla di litigation funding come una delle frontiere con cui il sistema giurisdizionale italiano avrebbe dovuto fare i conti: «L’unico altro riferimento è rintracciabile all’art.43 del regolamento della Camera arbitrale di Milano; tolto quello, il third party funding è un contratto atipico, che andrà regolato in maniera maggiormente puntuale», spiega De Dominicis. E potrebbe accadere presto: «C’è già una proposta di direttiva europea sull’argomento; e probabilmente il suo recepimento sarà il momento in cui il third party funding entrerà appieno nel sistema italiano», conclude l’avvocato.

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